Finiamola con questo 'ambaradan'
Storia di una parola dall'origine oscura che rivela aspetti della nostra coscienza collettiva
Fino a qualche anno fa non avevo nessuna idea dell’etimologia della parola ambaradan. La usavo comunemente: che ambaradan!, è successo un’ambaradan! eccetera. Sempre rigorosamente con la “n” finale.
Il significato del termine è noto: confusione, scompiglio, macello. L’ultima definizione è quella più vicina all’origine dell’espressione: un massacro compiuto dagli italiani nel febbraio 1936, durante la guerra d’Etiopia.
La conquista dell’Etiopia nel mio fumetto è solo un preambolo iniziale, una breve sintesi che aiuta a contestualizzare e a comprendere meglio le vicende successive. Eppure, l’episodio a cui mi riferisco è particolarmente simbolico dei fantasmi che continuano a infestare l’inconscio italiano. Vale la pena raccontare i dettagli.
1935, Mussolini vuole un posto al sole. Assegna il comando delle operazioni al generale De Bono, che il 5 ottobre entra in Etiopia dall’Eritrea e muove verso sud. Inizialmente, le manovre procedono a rilento. De Bono ottiene il primo risultato significativo a fine dicembre: l’occupazione di Macallè, una località nella regione del Tigrai. Sono passati tre mesi, il Duce si spazientisce, pretende maggiore aggressività. Sostituisce De Bono con Badoglio, autorizza l’uso di armi chimiche.
Gli etiopi preparano la difesa, alcuni eserciti vengono incaricati di contrastare l’avanzata italiana sul fronte nord. Tra questi l’armata di Ras Mulughieta, ottantamila uomini. Giunti in prossimità di Macallè, si fermano su un’altura chiamata Aradam: l’Amba Aradam (con la “m” finale), la parola Amba in amarico significa altopiano.
Si crea una situazione di stallo. Nell’attesa, Badoglio fa bombardare il monte con regolarità. L’Amba Aradam è ricco di cave e fessure, gli uomini di Ras Mulughieta le usano efficacemente per nascondersi, limitano le perdite. Ma non possono impedire lo sterminio del bestiame, che rappresenta la loro unica fonte di sostentamento.
Dopo oltre un mese di assedio, il 9 febbraio 1936, Badoglio è pronto per attaccare. Mobilita settantamila uomini, duecentosettanta pezzi di artiglieria pesante, centosettanta aerei, lo spiegamento di forze più grande di tutta la storia coloniale fino a quel momento. Sceglie una posizione dominante, l’Amba Gadam, per osservare le manovre insieme ai corrispondenti internazionali che ha invitato per l’occasione. Dice loro:
“Avrete il privilegio di assistere ad uno spettacolo straordinario”.
L’attacco comincia il 12 febbraio 1936. Per giorni e giorni gli italiani scaricano sull’altopiano centinaia di tonnellate di esplosivo, mentre l’esercito avanza e conquista posizioni. Gli etiopi possono difendersi solo con qualche cannone Oerlikon per la contraerea e armi arrugginite di fine ottocento, avanzate dalla battaglia di Adua. Sono stremati per la mancanza di cibo e risorse. Non c’è partita. Se si nascondono o impiegano troppo tempo ad arrendersi, gli italiani li colpiscono con le granate. Se escono dalle cave per sfuggire alle esplosioni, le raffiche di mitra li falciano senza pietà. Lo “spettacolo” promesso da Badoglio ai giornalisti è un’ecatombe: tra sei e ottomila morti, altrettanti feriti.
Non è ancora finita. Il grosso dell’esercito di Ras Mulughieta riesce a fuggire. Si tratta di cinquantamila persone in condizioni disperate, non rappresentano più un pericolo, eppure Badoglio ordina di sterminarle. Il 16 febbraio gli aerei raggiungono i fuggitivi e per due giorni li bombardano con centinaia di tonnellate di esplosivi e gas. Muoiono altre quindicimila persone.
È in quel contesto che nasce la parola ambaradan. È al termine delle operazioni, quando ci si guarda intorno e bisogna mettere ordine tra feriti, cadaveri dilaniati, brandelli umani. È mentre i soldati italiani trascinano i morti in punti di raccolta e poi li bruciano, con l’odore di carne carbonizzata che diffonde nell’aria e permane per mesi. Un caos, un’apocalisse, un ambaradan.
È inevitabile concludere che si tratta di una parola intrinsecamente violenta, profondamente offensiva (immaginate una versione tedesca del tipo “che forno crematorio!”). L’utilizzo inconsapevole dell’espressione ambaradan è uno dei tanti sintomi della mancata elaborazione del nostro passato coloniale, della retorica italiani brava gente che ci consente di evitare qualsiasi responsabilità. Al contrario, possiamo e dobbiamo fare un salto di qualità, a partire dal linguaggio. In questo senso, abbiamo la fortuna di vivere un periodo caratterizzato da piccole grandi evoluzioni collettive per essere maggiormente inclusivə e rispettosə. Possiamo bandire la parola con la “a” dal nostro vocabolario (com’è successo con la parola con la “n”). È un passo in avanti che può renderci migliori.
Nel mio fumetto l’Amba Aradam è una scena tagliata. Molto tempo fa avevo creato due pagine su questa vicenda e le avevo inserite nella parte iniziale sulla guerra di invasione. Tuttavia, nel tempo, ho realizzato che l’unico motivo per cui parlavo dell’Amba Aradam era per fini divulgativi. Nella narrazione la divulgazione è una trappola: deve essere una conseguenza, mai lo scopo primario. Con un po’ di distacco, mi è apparso evidente che la scena allungava eccessivamente la premessa del racconto, squilibrando la sceneggiatura senza contribuire al focus della storia. Pertanto, ho eliminato le pagine dallo storyboard. Esisteranno solo su questo blog.
Eccole qui sotto.
Alcune note a margine.
L’evento del 20 maggio al Nassau è stato molto bello e partecipato. Ho avuto l’opportunità di ricevere feedback incoraggianti sul lavoro che sto facendo. Ho conosciuto di persona Matteo Dominioni, uno degli storici più autorevoli sul tema coloniale, che poi si è preso la briga di leggere lo storyboard e condividere una serie di correzioni per migliorare l’ambientazione storica.
Note del tipo:
Pag 21: Sembra esserci un piattino sotto la tazzina. Toglierei, non usano piattini.
Se qualcuno è interessato, le mie tavole resteranno esposte al Nassau ancora per un po’. L’ingresso è gratuito con tessera Aics.
Lunedì 29 maggio ho assistito ad un incontro al Cabral con Diego Malara, professore di antropologia sociale, Mauro Ghermandi, educatore, e Gabriella Ghermandi, artista etio-italiana, autrice del libro Regina di cuori e di perle.
Diego Malara ha fatto un intervento sulle tracce ideologiche e materiali che permangono nel presente (vedi ambaradan), contribuiscono a creare la coscienza collettiva nazionale, riproducono rapporti asimmetrici nelle relazioni con le minoranze.
Mauro Ghermandi ha parlato del fenomeno del madamato in Eritrea nel 1930, e del cambiamento avvenuto con le leggi razziali del 1936 che impedivano i rapporti tra uomini italiani e donne native. Prima di queste disposizioni almeno il 50% dei padri riconosceva i figli, mentre in seguito c’è stato un incremento esponenziale degli abbandoni. Ci sono tuttora centinaia di meticci non riconosciuti, con gravissime difficoltà psicologiche e sociali.
Gabriella Ghermandi ha messo in scena una performance molto intensa e toccante. Attraverso un linguaggio fatto di narrazione orale, letture e canzoni, ha raccontato la storia della sua famiglia: la nonna che si innamora di un militare italiano, la madre meticcia allevata da suore che la educano a temere l’uomo nero e a idolatrare gli italiani come esseri superiori, l’arrivo in Italia e la disillusione della realtà, il ritorno in Etiopia alla ricerca delle proprie radici.
Grazie alle Note di Substack ho ripreso l’abitudine di condividere disegni in modo continuativo. Già che ci sono, ho pensato che probabilmente li pubblicherò anche su Instagram, dove ho creato un nuovo profilo (in seguito alla sospensione di quello precedente anni fa). Se vuoi seguirmi: @andrea.sestante