Adua
Un episodio che diventa il mito fondativo dell'Etiopia, una speranza di liberazione per l'Africa, e una vergogna indelebile per l'Italia
Adua ĆØ lāepisodio conclusivo della prima guerra di Abissinia, ma ĆØ molto piĆ¹ di una semplice battaglia. Ć la piĆ¹ grande sconfitta di un esercito europeo in Africa, una pietra miliare nella storia coloniale. Gli etiopi sbaragliano gli italiani in uno scontro decisivo, arrestano lāinvasione, e mantengono lāindipendenza. Come dice Angelo Del Boca, ĆØ un episodio che dĆ fiducia e coscienza a tutto il contintente, dimostra ai neri che l'uomo bianco non ĆØ invincibile, che il colonialismo si puĆ² fermare. La disfatta dellāItalia fa arrabbiare gli inglesi, preoccupa i francesi (per quanto avversi allāespansione italiana), l'esploratore Stanley, al servizio di Leopoldo II del Belgio, scrive:
Sentiamo il colpo cosƬ acutamente come fosse stato inflitto a noi stessi
Come abbiamo visto, lāItalia comincia la sua campagna con due batoste disastrose: la prima sullāAmba Alagi nel dicembre 1895, la seconda a MacallĆØ nel gennaio 1896.
Il Presidente del Consiglio Francesco Crispi ĆØ sulla graticola. Il conflitto in Etiopia ĆØ un bagno di sangue. In tutti i sensi, tantāĆØ che il Ministro delle Finanze Sidney Sonnino ĆØ contrario a proseguire per evitare il dissesto economico. La logica suggerirebbe di limitare i danni e ritirarsi. Ma Crispi deve dimostrare che lāItalia ĆØ al pari delle altre potenze europee, vuole andare avanti.
In realtĆ , gli unici che vanno avanti sono gli etiopi. Forti di ben due vittorie proseguono il viaggio verso nord. Le armate di Menelik II sono composte da comandanti prestigiosi, ciascuno alla guida di una propria divisione. Tra questi lāimperatrice TaitĆ¹ BatĆ¹l (moglie di Menelik), Ras Mekonnen (cugino dellāimperatore), Ras Alula (trionfatore di Dogali), e Ras Mengesha (ex rivale al trono). Prendono posizione su un altura chiamata Abba Garima, vicina alla cittĆ di Adua, ideale per un obiettivo molto ambizioso che stanno valutando: invadere lāEritrea e riprendersi la colonia concessa agli italiani.
Il comandante italiano Oreste Baratieri promette a Crispi che sconfiggerĆ Menelik, lo riporterĆ in Italia chiuso in gabbia. Mette insieme circa diecimila soldati nazionali, seimila ascari eritrei, cinquanta mitragliatrici. Dovrebbero bastare, no? In fin dei conti, stanno per affrontare dei āselvaggiā armati solo di lance, frecce, scimitarre, e qualche fucile francese comprato da avventurieri come il poeta maledetto Arthur Rimbaud.
Ma ci sono due elementi che Baratieri non ha considerato. Il primo ĆØ la complessitĆ del territorio, ricco di foreste, gole, vallate, altopiani, con la nebbia pronta a toglierti visibilitĆ . Non esattamente il contesto ideale, anche perchĆ© gli italiani sono sprovvisti di mappe affidabili.
Il secondo aspetto ĆØ la forza dellāesercito etiope. Le informazioni dicono che sia composto da trenta o quarantamila combattenti. In realtĆ , sono quasi centoventimila. E cāĆØ un dettaglio che sorprenderĆ gli italiani anche durante lāinvasione condotta dal fascismo quarantāanni piĆ¹ tardi: gli etiopi hanno un coraggio da leoni, sono pronti a morire per difendere il proprio paese, attaccano in massa e avanzano nonostante i compagni cadano al loro fianco falciati dalle mitragliatrici. In questo modo riescono a far valere la superioritĆ numerica, che ĆØ soverchiante.
Al di lĆ delle roboanti dichiarazioni di facciata, il generale sa di essere appeso a un filo. Riceve da Crispi un telegramma sferzante:
Codesta ĆØ una tisi militare non una guerra: piccole scaramucce, nelle quali ci troviamo sempre inferiori di numero dinanzi al nemico; sciupio di eroismi senza successo.
Il 29 febbraio 1896 si tiene un consiglio sul monte SauriĆ . Forse Baratieri ha realizzato che il governo lo vuole sostituire con un nuovo generale, Antonio Baldissera (che sta arrivando per comunicargli la notizia di persona). O forse si rende conto che i suoi uomini sono allo stremo. Mancano medicinali, scarpe, ricambi per le armi, cibo. CāĆØ chi ammazza di nascosto le bestie da soma per mangiarle. Insomma, bisogna sbloccare la situazione in fretta prima che degeneri.
Ordina che le truppe si mettano in marcia suddivise in tre colonne parallele condotte dai generali Albertone (sulla sinistra), Arimondi (al centro) e Dabormida (a destra). Subito dopo parte anche una quarta spedizione, condotta dal generale Ellena, con compiti di riserva e rincalzo.
Lāobiettivo ĆØ trascinare il nemico in campo aperto. Ma Menelik dallāalto dellāAbba Garima preferisce attendere i battaglioni nemici nella valle sottostante. Non vuole essere il primo ad iniziare le ostilitĆ .
Il 1 marzo, confusi da cartine approssimative, le forze italiane-eritree si disuniscono. Il Generale Albertone prende un monte a destra invece che a sinistra, taglia la strada alle truppe di Arimondi costringendole a restare indietro rispetto alla tabella di marcia. Raggiunge il punto giusto (a sud del monte Rajo) segnato con un nome sbagliato, il colle Chidane Meret, che ĆØ ancora molto lontano. In un impeto di protagonismo insensato, Albertone decide di allungare e raggiungere il vero Chidane Meret. Le tre colonne si ritrovano isolate e senza coordinamento.
Gli etiopi capiscono che ĆØ il momento giusto di caricare. Alcune fonti dicono che sia Ras Alula a partire, altre che sia lāimperatrice TaitĆ¹ con la sua guardia personale di settemila uomini. Poco importa, lāesercito etiope segue in massa. Riesce ad accerchiare le colonne italiane, sbaragliandole una ad una in un pandemonio di terrore.
La mattanza dura una giornata intera. Alla fine, il bilancio ĆØ devastante. Tra i cinque e i settemila morti italiani (su un totale di diecimila), duemila morti tra gli ascari, circa millecinquecento feriti, quasi duemila prigionieri.
Durante la battaglia, i guerrieri etiopi si vendicano su alcuni feriti italiani spogliandoli ed evirandoli, un rito che impedisce al nemico di riprodursi. Si tratta di una pratica vietata dallāimperatore Menelik, ma impossibile da impedire nel caos generale.
Un destino diverso attende gli ascari eritrei sopravvissuti. Per gli etiopi sono dei traditori, ma bisogna dire che se avessero disertato gli italiani li avrebbero uccisi. Gli etiopi li lasciano vivere, ma li puniscono con il taglio della mano destra e del piede sinistro. Una sorta di marchio di Caino ed un modo per impedire che possano combattere ancora. Durante un incontro a Bologna, lāattivista eritreo Abraham Tesfay ha raccontato che nel suo paese una generazione intera ĆØ cresciuta con i nonni mutilati dagli etiopi. Questo ha creato uno strascico di odio tra i due popoli che permane tuttora, di cui noi portiamo la responsabilitĆ .
Al termine della guerra, Menelik rimanda a casa tutti i prigionieri italiani, perlopiĆ¹ incolumi. Decide di rinunciare ad invadere lāEritrea, concedendo allāItalia di mantenere la colonia. Col senno di poi questa si rivelerĆ una pessima decisione. Ma come biasimiare chi ha appena terminato una battaglia sanguinosa e non se la sente di cominciarne subito unāaltra?
Bisogna considerare infatti che anche dal lato degli etiopi si contano perdite enormi, le stime variano tra i quattro e i settemila soldati uccisi. Poi, si sa, nella narrazione eurocentrica i caduti nativi sono sempre poco rilevanti, e non importa se numerosi quanto i nostri. Adua viene raccontata come un massacro di soli bianchi. E con la abituale perversione retorica, i morti italiani diventano martiri da commemorare in nome di chissĆ quale causa.
Ovviamente, le conseguenze in patria sono pesantissime. Crispi ĆØ costretto a dimettersi. Baratieri viene processato da una Corte Marziale (poi assolto, ma destituito da ogni incarico militare). Il governo abbandona ogni ulteriore progetto di conquista.
Nellāottobre del 1896 le due nazioni firmano la pace di Addis Abeba. LāItalia mantiene la colonia eritrea, ma riconosce la piena autonomia dellāEtiopia e abroga il trattato di Uccialli (il peccato originale).
Per gli etiopi Adua ĆØ un evento epico, un mito fondativo della nazione. Da allora si celebra il trionfo sugli italiani e la riconquistata indipendenza con una festa nazionale nel giorno del 2 giugno, non quello della vittoria ma il successivo, quando si diffonde la notizia e la popolazione puĆ² finalmente festeggiare la fine di un incubo.
Per lāItalia, invece, Adua ĆØ una fonte di imbarazzo enorme, una vergogna indelebile che resterĆ scolpita nellāimmaginario collettivo per decenni. Mussolini userĆ Adua come pretesto retorico per giustificare lāinvasione dellāEtiopia nel 35: il riscatto della nazione, il recupero della virilitĆ perduta, eccetera. E con lo spettro di questa sconfitta epocale pianificherĆ una delle campagne piĆ¹ stragiste della storia, utilizzando in modo massiccio gas e bombardamenti. Uno dei temi di cui parlerĆ² nella mia graphic novel.