L'inizio della Guerra di Abissinia
L’invasione dell'Etiopia da parte di Mussolini nel '35 è solo il secondo atto del tentativo italiano di conquistare la regione. Il debutto avviene molto prima con una serie di disfatte epocali.
Tutti i saggi che ho letto sul tema della mia graphic novel partono sempre dalla prima Guerra d’Abissinia, ovverosia la clamorosa sconfitta subita dagli italiani a fine ottocento. L’invasione da parte di Mussolini nel 1935, infatti, non è che il secondo atto del tentativo italico di conquistare la regione. Il debutto avviene molto prima e rappresenta una premessa fondamentale di questa storia.
Nel post sulla nascita dell’Eritrea abbiamo visto che nel 1889 l’Italia stringe un accordo di reciproca convivenza con l’imperatore Etiope Menelik II, il cosiddetto Trattato di Uccialli (dal nome della località Wuchalé).
Tuttavia, c’è un piccolo problema. La traduzione italiana del documento, trasmessa alle potenze coloniali della Conferenza di Berlino, altera la versione originale in amarico cambiando ad arte il significato di alcune espressioni. Di fatto trasforma l’Etiopia in un protettorato. Sarà un caso, ma il nome Uccialli ha una certa assonanza con il verbo uccellare. Quando Menelik si accorge di essere stato uccellato dichiara invalido il trattato. Gli italiani allora pensano bene di prendersi con la forza quello che non sono riusciti ad ottenere con l’inganno.
Comincia così la Guerra d’Abissinia. Siamo all’inizio del 1895, e l’Italia è governata da Francesco Crispi, la sinistra storica, “i democratici”. Si tratta di una formazione politica che rappresenta la classe media: borghesia urbana, imprenditori, giornalisti, accademici, una specie di PD dell’epoca. Che sia proprio la “sinistra” ad avviare il colonialismo italiano è un’anticipazione delle affinità bipartisan che caratterizzeranno questo tema fino ai giorni nostri.
Gli italiani cominciano a penetrare il territorio etiope. Il comandante in capo dell’esercito italiano è Oreste Baratieri, ex eroe garibaldino che aveva partecipato alla spedizione dei Mille. Baratieri vince le prime battaglie. Nel marzo 1895 occupa una parte del Tigrai, a nord dell’Etiopia. Per Crispi è un successo enorme.
Menelik intima agli italiani di tornare indietro, li avverte più volte delle conseguenze a cui vanno incontro, ma in cambio ottiene solo disprezzo e derisione. Capisce di non avere alternative alla guerra. Dichiara la mobilitazione generale, lascia Addis Abeba e si mette in marcia verso nord. Attraversa ottocento chilometri di territorio raccogliendo combattenti da ogni parte dell’impero.
Il primo scontro avviene nel dicembre 1895 sull’Amba Alagi, ovverosia il monte Alagi (“amba” significa montagna). Il maggiore Toselli deve affrontare Ras Mekonnen, cugino dell’Imperatore e padre del futuro negus Haile Selassie, un uomo dalle maniere aristocratiche che comanda un’armata di trentamila uomini. In un mix di presunzione e incompetenza, Toselli decide di posizionare sul monte solo duemila soldati.
Piccolo dettaglio. Molti di loro sono àscari, ovverosia eritrei arruolati nel Regio Esercito. Con la creazione di un corpo militare eritreo da usare nella guerra contro gli etiopi, gli italiani introducono un modello fratricida che produrrà odio e conflitti tra i due popoli fino ai giorni nostri.
Ras Mekonnen prega Toselli di ritirarsi, invano. La battaglia ha inizio. Gli italiani hanno armi più evolute, tra cui proiettili esplosivi, riescono ad uccidere una quantità di etiopi, ma l’esito è segnato. Nonostante le gravi perdite, l’esercito di Ras Mekonnen circonda il nemico e lo annienta.
Al termine del conflitto, gli etiopi seppelliscono il maggiore Toselli con tutti gli onori militari. Dal punto di vista di Roma gli abissini sono dei “traditori”, i nostri caduti dei martiri.
L’episodio successivo di questa tragicommedia all’italiana è praticamente una replica del primo. Siamo a gennaio del 1896. L’Italia invia agli ordini del maggiore Galliano milleduecento soldati a difesa di un forte a Macallè, chiamato Enda Yesus (Chiesa di Gesù), sempre nella regione del Tigrai. Ras Mekonnen lo assedia con il suo esercito, scrive a Galliano di lasciare il territorio altrimenti sarà costretto ad attaccare. Galliano risponde con supponenza “Fate ciò che dovete”. Nel frattempo, sul luogo arriva anche l’imperatore Menelik con il suo esercito di centomila uomini.
I soldati di Galliano sono bene armati, riescono a repingere gli assalti e causano gravi perdite agli avversari. Allora, gli etiopi decidono di cambiare strategia: arretrano, prendono il controllo delle sorgenti che riforniscono il forte, e si mettono in attesa. Dopo poco tempo gli italiani si ritrovano senza cibo né acqua, sono spacciati.
Menelik propone di concedere una resa in cambio della cancellazione del trattato di Uccialli. Il governo di Roma rifiuta la proposta, il trattato deve rimanere valido.
Gli assediati sono sostanzialmente condannati dal proprio comando a morire di fame. Ma l’imperatore è magnanimo: anche se la sua richiesta (peraltro legittima) non è stata accolta, consente l’evacuazione dal forte di tutti gli occupanti. Li accompagna fino a farli rientrare nelle loro linee, consapevole che da quelle linee gli italiani potrebbero riprendere l’invasione (cosa che puntualmente accadrà). Fa addirittura trasportare donne, bambini e feriti su centinaia di muli che procura per l’occasione.
Come nel caso dell’Amba Alagi, la rappresentazione di Roma della vicenda è ribaltata in modo grottesco: nessun accenno alla clemenza di Menelik, i nostri diventano gli eroi del momento. Galliano ottiene addirittura una promozione.
(Per inciso, a parti invertite, nella seconda guerra italo-etiope del 35, gli italiani tratteranno gli etiopi sconfitti in battaglia in modo molto diverso: uccidendoli sul posto, irrorandoli con i gas, o rinchiudendoli in campi di concentramento con tassi di mortalità elevatissimi.)
A questo punto, Menelik propone di aprire delle trattative di pace. Dopo le due disfatte di cui sopra, un atteggiamento razionale suggerirebbe di considerare una mediazione. Ma Crispi vuole una vittoria a tutti i costi, invia a Baratieri un telegramma in cui scrive:
Siam pronti a qualunque sacrifizio per salvare l'onore dell'esercito e il prestigio della monarchia.
Spoiler (arcinoto): con la battaglia di Adua, Crispi avrà il “sacrifizio” che cercava senza riuscire salvare un bel nulla. Ma questa storia la racconteremo nel prossimo post.