Etiopia ed Eritrea
L'impatto decisivo del colonialismo italiano nel definire i confini nel Corno d'Africa
Mi sono reso conto che la distinzione tra Etiopia ed Eritrea a volte genera confusione nelle persone con cui parlo del mio progetto. Chiarire il punto è fondamentale. Le diverse nazionalità dei tre protagonisti sono importanti per le vicende che racconto.
Dunque si tratta di due paesi diversi? Una è una regione dell’altra? Cosa si intende per Abissinia?
Risposta breve. Sono due nazioni: l’Eritrea è lunga, stretta e si affaccia sul mare, l’Etiopia è molto più grande e dà sull’interno. Abissinia è un termine che indica la regione nel suo complesso.
Risposta lunga. La definizione dei confini tra Etiopia ed Eritrea, nonché la genesi stessa dell’attuale Eritrea, dipendono direttamente dalle nostre iniziative coloniali. È una storia che merita di essere raccontata.
Innanzitutto è necessario fare un passo indietro rispetto all’ambientazione del fumetto. Le avventure italiane nel Corno d’Africa, infatti, non cominciano con il fascismo ma in epoca liberale, tra la fine dell’800 e l’inizio della prima guerra mondiale. In quel periodo, con la caduta dell’impero ottomano e l’apertura del Canale di Suez, le principali potenze europee sgomitano per mettere le mani su nuovi territori nel continente africano, una corsa frenetica per arraffare quanto più possibile a scapito dei concorrenti. Il fenomeno è definito Scramble for Africa.
Il neonato Regno d’Italia teme di essere tagliato fuori e fare la fine del parente povero. Comincia così nel 1869 il colonialismo tricolore: un missionario di nome Giuseppe Sapeto acquista per conto della compagnia genovese Rubattino la baia di Assab, nell’estremità sud del Mar Rosso. La baia viene poi riscattata ufficialmente dal Governo italiano nel 1882.
Inizialmente, le operazioni italiane sembrano focalizzate allo sviluppo di rapporti commerciali. L’imperatore etiope Yohannes IV le accoglie positivamente.
Ma nel 1885 tutto cambia. Gli italiani occupano miltarmente il porto di Massaua e l’anno successivo penetrano nell’entroterra, insediandosi nel forte di una località chiamata Saati. Yohannes IV capisce che l’Italia ha avviato una vera e propria invasione, e reagisce.
Nel gennaio del 1887 le truppe di Ras Alula tentano di riconquistare il forte di Saati. L’esercito italiano però è meglio equipaggiato e respinge l’attacco, uccidendo centinaia di etiopi. Allora, gli uomini del Ras si ritirano verso la località di Dogali, dove incrociano una colonna composta da oltre cinquecento militari italiani, che si preparano al combattimento con le mitragliatrici. Gli uomini di Ras Alula non hanno la stessa potenza di fuoco, ma sono molto più numerosi e conoscono meglio il territorio. Circondano il nemico e riescono a ribaltare le sorti dello scontro. Gli italiani sono annientati, pochissimi sopravvivono.
Terminata la battaglia, gli etiopi trattano i superstiti italiani feriti con grande umanità, consentendone il recupero da parte degli altri compatrioti.
A discapito delle circostanze, in Italia l’episodio viene presentato come “il massacro di Dogali”, i nostri caduti sono vittime innocenti di un vile agguato. Non contano gli obiettivi per cui i soldati italiani si trovavano lì, e contano ancora meno gli etiopi uccisi mentre tentavano di difendere il proprio paese da un aggressione. Il Governo di Roma ha addirittura la spudoratezza di chiedere all’Etiopia un risarcimento economico.
Ancora oggi i cinquecento morti italiani di Dogali vengono celebrati come martiri un po’ in tutte le città d’Italia. Ad esempio, a Modena (mia città natale) c’è la Piscina Dogali, dove andavo a nuotare da ragazzino. A Roma c’è l’obelisco di Dogali, e poco distante c’è Piazza dei Cinquecento (quest’ultima ribattezzata “Piazza delle Cinquecentomila vittime del colonialismo italiano” durante una recente dimostrazione anti-coloniale).
In seguito alla disfatta di Dogali, gli italiani vanno alla ricerca di un alleato contro Yohannes IV, e stringono un patto di amicizia con il suo rivale: Menelik II, sovrano della regione Scioa.
Nel 1889 Yohannes IV muore. Nella contesa per la successione al trono, Menelik si impone sul figlio di Yohannes IV, Ras Mengesha. Divenuto imperatore, forte dell’appoggio italiano, Menelik unisce il territorio dello Scioa a quelli di Tigrè e Amara, definendo i confini dell'odierna Etiopia, e istituendo Addis Abeba come capitale.
L’alleanza tra Menelik e gli italiani viene sancita con il Trattato di Uccialli. Da un lato, gli italiani si impegnano a riconoscere la legittimità del nuovo sovrano. Dall’altro, Menelik riconosce le acquisizioni territoriali italiane, includendo una parte degli altipiani e rinunciando all’accesso al mare (pur mantenendo il diritto di commerciare attraverso il porto di Massaua).
Il 1 gennaio 1890 nasce così l’Eritrea (dal greco Eritros, rosso, perché affaccia sul Mar Rosso), la nostra prima colonia, a tutti gli effetti una creazione Made in Italy. Secondo lo storico Matteo Dominioni, le decisioni prese in quel periodo riguardo ai confini tra Eritrea ed Etiopia sono tuttora causa di guerre e conflitti.
Chiarito il modo in cui si sono formati i due stati, ecco che la nazionalità dei personaggi di Yekatit 12 acquista significati aggiuntivi. Mentre Simeon Adefris è etiope, Abraham Deboch e Mogus Asghedom, i due che lanciano le granate contro Graziani, sono eritrei.
Perché due immigrati rischiano la vita per l’indipendenza di un paese che non è il loro? La graphic novel tenta di rispondere a questa domanda nel dettaglio, ma si possono formulare un paio di concetti generali.
Primo. Come abbiamo visto, all’epoca la distinzione tra i due stati era piuttosto fiebile, creata artificialmente per placare le istanze espansionistiche degli italiani. Eritrei ed etiopi si sentivano probabilmente parte dello stesso popolo, e condividevano l’avversione per l’invasore che aveva occupato le loro terre. È facile immaginare che Abraham e Mogus non si sentissero stranieri in Etiopia, anzi, che provassero un sentimento di appartenenza.
Secondo. Questa storia può essere considerata come uno dei tanti esempi di internazionalismo antifascista. Nel post precedente ho parlato di Partigiani d’Oltremare e di Giorgio Marincola, persone che si sono battute per liberare un paese diverso da quello in cui erano nate. Ovunque, la Resistenza al fascismo è sempre stata caratterizzata da partigiani di nazionalità miste, mossi dalla volontà di difendere un sistema di valori più che una bandiera specifica. Il caso di Abraham e Mogus è l’ennesima conferma in questo senso.