L'Ascaro
Ritratto di un personaggio complesso tra ispirazione storica e riconoscibilità narrativa: la caratterizzazione di Abraham Deboch.
Premessa veloce. Lunedì 19 febbraio, ricorrenza dello Yekatit 12, interverrò all’evento Colonialismo Italiano Memorie Consapevoli al Museo Civico di Modena. Per l’occasione il Museo proietterà i miei disegni in uno spazio dedicato. Il seminario è curato da Alessandro Triulzi (intervenuto anche lo scorso Yekatit 12 a Roma), e prevede il contributo di Matteo Dominioni (con cui ho già condiviso la presentazione del fumetto al Nassau di Bologna). Alle 21 c’è un reading di Carlo Lucarelli Italiani Bravissima Gente.
Una regola generale del fumetto è caratterizzare graficamente i personaggi in modo distintivo. Le immagini fisse e di piccole dimensioni richiedono attori riconoscibili con pochi segni peculiari. Questo aspetto diventa particolarmente importante nel caso di Yekatit 12 dove i protagonisti hanno nomi poco familiari per il pubblico italiano.
Una delle sfide più difficili che ho affrontato è stata contraddistinguere in modo chiaro la coppia di attentatori eritrei: Mogos Asghedom e Abraham Deboch.
Una tecnica diffusa per impadronirsi del disegno di un personaggio è raccogliere riferimenti fotografici, in modo da visualizzarlo in diverse pose. Quando le immagini sono solo un paio, come nel caso di Mogos e Abraham, ci sono due opzioni per crearsi i riferimenti necessari:
personalità pubbliche (vedi l’esempio Rupert Everett / Dylan Dog)
conoscenti che si prestino a fare da modelli (metodo equivalente a un casting cinematografico)
Nel caso di Mogos ho adottato la prima strada, identificando subito la figura di un atleta etiope, Lelisa Desisa, che ha una discreta somiglianza con il riferimento. Al modello ho aggiunto un paio di occhiali, simbolo della passione di Mogos per lo studio.
Nel caso di Abraham, invece, ho vissuto un vero e proprio travaglio. Si tratta di un personaggio molto controverso. Riassumo i punti principali:
Nasce in Eritrea. Frequenta le scuole italiane ad Asmara fino a 14 anni, limite massimo consentito dagli italiani ai nativi (ne ho scritto nel post You don’t need no education).
Emigra illegalmente in Etiopia per continuare a studiare.
È intelligente, estroverso, diretto. Ha un temperamento volatile, può diventare aggressivo, cambia spesso idea. A scuola è coinvolto in risse, compie atti di bullismo.
Ad Addis Abeba finisce sotto l’ala di un tutore, che diventa suo padre adottivo. I due trafficano sottobanco con gli italiani che preparano l’invasione. La sicurezza dell’imperatore li scopre. È uno scandalo, il padre si suicida, Abraham finisce in carcere.
Quando comincia l’invasione italiana nel 1935 c’è un’amnistia generale, Abraham viene liberato, ma da quel momento tutti lo considerano una spia.
La sua reputazione di collaborazionista è perfetta per l’amministrazione italiana, diventa un collaboratore di Badoglio e Graziani, una specie di Ascaro dal colletto bianco.
È inizialmente convinto che gli italiani modernizzeranno il paese. Poi subisce alcuni episodi di razzismo. Va al cinema, scopre che i neri hanno i posti segregati. Il Ministro delle Colonie Lessona non gli stringe la mano. Si sente tradito da quei bianchi che aveva servito con la massima dedizione. Decide di vendicarsi.
Finalmente la svolta: durante lo spettacolo Il Violino del Titanic di Cantieri Meticci, che si è tenuto nel quartiere Corticella di Bologna la scorsa estate, ho notato tra il pubblico un ragazzo che assomigliava all’idea di Abraham che stavo cercando. Una conoscenza comune ci ha introdotto: il ragazzo si chiamava Abel, era eritreo (!), ed era interessato ad approfondire il lavoro che stavo facendo.
L’ho coinvolto nel progetto di Yekatit 12, chiedendogli di interpretare il personaggio di Abraham attraverso una serie di scatti fotografici. Abel si è dimostrato fin da subito disponibile ad aiutarmi. Mi ha detto che sentiva una connessione con la vicenda di Abraham: anche lui ha fatto le scuole italiane, ed è dovuto emigrare per continuare a studiare.
Abel si è preso un po’ di tempo per leggere lo storyboard, e si è presentato al primo shooting con una solida preparazione: aveva delle osservazioni che mi hanno aiutato a migliorare alcuni passaggi, e si era pettinato i capelli nello stile afro tipico dell’epoca. Abbiamo fatto così un paio di sessioni a distanza di una settimana. Il lavoro consisteva nel prendere le bozze delle scene, valutare il contesto, capire motivazioni e sentimenti che volevamo esprimere, e ricreare l’atteggiamento del personaggio. Io regista, Abel attore. Dopodiché, rientravo a casa e mi mettevo a disegnare.
La riconoscibilità narrativa è più importante della somiglianza storica. Pertanto, l’Abraham del mio fumetto, con baffi e pizzetto, è leggermente diverso da quello vero, una libertà creativa funzionale a diversificarlo in modo netto rispetto agli altri personaggi, a partire da Mogos.
Il confronto con Abel è stato molto stimolante anche per i suoi contributi sulla cultura eritrea. Ad esempio, mi ha consigliato di leggere L’Ascaro (Edizioni Tamu) di Ghebreyesus Hailu.
L’Ascaro, scritto negli anni venti in un’Eritrea soggetta al dominio italiano già da oltre trent’anni, racconta la storia di Tequabo, un ragazzo in cerca di gloria che si arruola al servizio degli italiani e partecipa alla campagna per conquistare la Libia. In questo romanzo di formazione, il protagonista passa da scoperte emozionanti (il mare, il deserto) all’orrore di un’esperienza caratterizzata da umiliazioni, sofferenze e morte. Tequabo realizza di combattere per un potere che lo usa senza nessuna considerazione e matura un crescente rispetto per i suoi avversari, i beduini, che si battono coraggiosamente per difendere la propria terra dall’invasore. Raccontando la contraddizione del colonizzato che diventa strumento di colonizzazione, l’autore mette in scena le radici dell’odio, le premesse per uno spargimento di sangue senza fine:
Gli arabi (…) avrebbero insegnato ai propri figli e questi, ancora, ai loro figli: “Dimenticati pure qualsiasi cosa, ma non dimentircarti del sangue degli habesha1.”
E infatti:
Durante l’occupazione italiana dell’Etiopia del 35-41, in un perverso contrappasso, gli ascari libici furono protagonisti delle violenze più efferate nei confronti degli abissini.
Nella postfazione, Alessandra Ferrini scrive che le vicende storiche narrate nel libro influiscono tutt’oggi sulle violenze subite dai migranti eritrei che attraversano la Libia.
La prefazione è di Maaza Mengiste, scrittrice etiope-americana, autrice del romanzo Il Re Ombra. Mengiste sottolinea che:
L’incapacità dell’Italia di affrontare la storia razzista e violenta che ha avuto luogo nel Corno d’Africa e in Libia (…) ha perpetuato una gerarchia razzista che riecheggia nella retorica politica contro la migrazione di oggi.
Infine, la traduzione è di Uoldelul Chelati Dirar, professore di Storia e Istituzioni dell’Africa all’Università di Macerata, che ho avuto la fortuna di incontrare tempo fa, e che mi ha aiutato a migliorare alcuni punti di Yekatit 12. Nell’introduzione al libro, Chelati Dirar spiega che la dominazione italiana in Eritrea fu caratterizzata da una segregazione razziale diffusa, ad esempio nel campo dell’istruzione, con scuole per europei e africani e il divieto per i sudditi coloniali di studiare oltre la quarta elementare. Questo regime lasciava solo due opzioni di mobilità sociale. La prima era l’arruolamento nell’esercito, come nel caso di Tequabo, protagonista del libro L’Ascaro. La seconda era l’esodo, prevalentemente nell’Etiopia di Haile Selassie, come nel caso di Abraham e Mogos, protagonisti del mio fumetto.
Termine che indica le popolazioni dell’altopiano sia eritreo che etiopico. Corrisponde all’italiano “abissino”.