Do They Know It's Christmas?
Analisi di una canzone simbolo che, a quarant’anni dalla sua uscita e malgrado le migliori intenzioni, continua a propagare razzismo e stereotipi neocoloniali.
È un periodo intenso, sto finalizzando le tavole del fumetto: su 184 pagine totali ne mancano circa 30 da disegnare e 60 da colorare. Dovrei terminare il tutto nel giro di tre mesi circa. Ci sono anche evoluzioni positive sul fronte della pubblicazione, anche se non è ancora il tempo di fare annunci ufficiali.
Più vado avanti e più mi sento sicuro nel disegno, sorge la tentazione di rifare le vecchie tavole. Ma devo resistere all’impulso e concludere: i figli prima o poi bisogna lasciarli andare.
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Si avvicina quel periodo dell’anno in cui siamo subissati da canzoni natalizie. Il fenomeno è talmente pervasivo che l’anno scorso era nato il contest virale Whamageddon dove l’obiettivo era evitare di ascoltare Last Christmas degli Wham. Personalmente, sono stato colpito e affondato a due settimane dall’inizio del gioco.
Le canzoni natalizie sono in apparenza un genere musicale innocuo: melodie gioiose, parole che trasmettono messaggi di amore, pace e fratellanza. Cosa potrebbe mai andare storto?
Eppure, tra John Lennon, Mariah Carey e José Feliciano, c’è una canzone che proprio quest’anno compie quarant’anni e che, da quando ho cominciato a lavorare a Yekatit 12, mi provoca l’effetto delle unghie sulla lavagna: la famosissima Do They Know It’s Christmas?
Do They Know It's Christmas? è una canzone scritta nel 1984 da Bob Geldof e Midge Ure degli Ultravox e interpretata da Band Aid, un supergruppo con star come George Michael, Sting, Boy George, Bono, Phil Collins, costituito appositamente per uno scopo caritatevole: raccogliere fondi contro la carestia che devastò l’Etiopia tra il 1983 e il 1985.
La canzone fu un successo straordinario, vendette milioni di copie, ispirò il progetto parallelo made in USA We Are the World, e portò all’organizzazione del leggendario concerto Live Aid a Wembley. Ero un ragazzino, ricordo ancora il pomeriggio in cui vidi Sting suonare Message in a bottle sulla tv di un bar di Montombraro, un piccolo paese dell’appennino modenese.
Nessuno mette in dubbio che gli artisti agissero in buona fede, convinti di contribuire a una nobile causa. Ma, come si dice, la strada per l’inferno è lastricata di buone intenzioni. È necessario rileggere quella vicenda con una prospettiva più matura.
Innanzitutto, nel corso della propria storia l’Etiopia ha sperimentato ogni anno livelli variabili di siccità che, nei casi peggiori, hanno portato carestie, abitualmente gestite attraverso fenomeni migratori interni. Nel 1983-85 gli effetti furono devastanti, colpirono in particolare le regioni a nord del paese: l’Eritrea e le provincie di Tigray, Begember e Wollo.
Tuttavia, le cause principali di quell’evento non furono naturali, bensì legate alla dittatura comunista dei Derg, guidata dal tiranno Menghistu Hailé Maryam (che governò l’Etiopia dal 1974 al 1987). Il regime, impegnato a combattere le milizie ribelli del Tigrayan People's Liberation Front (TPLF), compì una serie di repressioni criminali: reinsediamenti di massa di milioni di persone in condizioni disumane, campi di concentramento, bombardamenti sui civili.
Svariate agenzie presenti sul territorio avvertirono Bob Geldof che finanziare quel contesto avrebbe potuto avere gravi ripercussioni. Médecins Sans Frontières lo pregò di non consegnare nulla fino a quando non ci fosse un’infrastruttura capace di garantire che gli aiuti arrivassero direttamente alle vittime.
Geldof ignorò queste raccomandazioni dichiarando enfaticamente:
“Stringerei la mano al diavolo sia alla mia sinistra che alla mia destra pur di arrivare alle persone che dobbiamo aiutare.”1
Il patto con il diavolo fu siglato, e non si limitò alle strette di mano: i notiziari trasmettevano immagini e filmati di Bob Geldof che abbracciava calorosamente Menghistu Hailé Maryam, punto di riferimento per la ripartizione delle risorse.
Impadronitosi dei fondi, il dittatore li utilizzò per comprare armamenti dalla Russia da impiegare nella guerra contro l’opposizione. Quello che era il terzo paese più povero del mondo si ritrovò improvvisamente con l’esercito più potente dell’Africa.
Nel frattempo, cibo e medicinali marcivano nei porti di Assab e Massaua poiché la quasi totalità della logistica era impegnata nel trasportare gli equipaggiamenti militari dalle navi sovietiche all’interno del paese. Live Aid fece una serie di tentativi per raggiungere direttamente le zone colpite, ma incontrò un ostacolo ovvio: l’agenda di Menghistu Hailé Maryam, che usava la distribuzione di cibo come arma di ricatto per controllare i territori in rivolta.
Quando i soldi riuscirono ad arrivare dall’altro lato della barricata, le cose non andarono molto meglio. Si stima che le milizie del TPLF abbiano ottenuto circa 100 milioni di dollari provenienti da Live Aid, ma che solo il 5% di questa cifra sia stato utilizzato per sfamare le persone. Il restante 95% fu destinato all’acquisto di armi e alla costruzione di un partito marxista interno al movimento.
L’iniziativa umanitaria fu un fallimento, anzi secondo la maggior parte degli analisti contribuì in maniera significativa a peggiorare lo sterminio.
In questa parabola emerge un primo elemento di suprematismo bianco: la presunzione di poter intervenire ovunque nel mondo per risolvere i problemi di popolazioni ritenute inferiori, senza alcuna comprensione delle dinamiche locali.
Dopodiché, c’è il contenuto della canzone, intriso di stereotipi, razzismo, neocolonialismo, ignoranza. Provo a decodificarne il sottotesto.
And in our world of plenty
We can spread a smile of joy
Throw your arms around the world
C’è la tipica contrapposizione superficiale tra il “nostro mondo”, bianco, occidentale, eurocentrico, fatto di “abbondanza”, e il loro mondo, povero, triste e bisognoso. Si suggerisce che la ricchezza materiale (legata al nostro modello consumistico) sia sinonimo di “felicità”, una gratificazione che possiamo “distribuire” paternalisticamente ai meno abbienti. Si invita ad “abbracciare il mondo”, trattando il resto del pianeta come un’entità passiva e indistinta che ha bisogno del nostro intervento.
But when you're having fun
There's a world outside your window
And it's a world of dread and fear
Si rafforza la dualità tra noi e loro: nel nostro mondo c’è gioia, “divertimento”, nell’altro no. Al di là del confine della nostra “finestra” (la casa come rifugio dall’orrore esterno) si trova l’altro “mondo”, un blocco monolitico definito esclusivamente da “terrore e paura”.
And the Christmas bells that ring there
Are the clanging chimes of doom
Well, tonight thank God it's them instead of you
Presumo che il senso di questo passaggio fosse far capire a chi ascolta quanto sia fortunato/a, un po’ come quando i nostri nonni ci minacciavano per farci finire quello che rimaneva nel piatto. Tuttavia, l’effetto è particolarmente infelice nella sua involontaria crudeltà. “Là” non ci sono le “campane (gioiose) di Natale”, ma quelle del “destino” che li condanna. “Questa volta, grazie a Dio, tocca a loro (morire di fame), non a te”. C’è il distacco morale del privilegiato che guarda l’altro con commiserazione.
And there won't be snow in Africa this Christmas time
The greatest gift they'll get this year is life
Where nothing ever grows, no rain or rivers flow
Il vero Natale è solo quello con i simboli occidentali: la “neve”. Si esprime compassione per i poveri africani che questo Natale non l’avranno, estendendo arbitrariamente la siccità dell’Etiopia all’intero continente. Si ignora così la varietà climatica di un territorio immenso, che include luoghi dove nevica regolarmente. Gli africani possono solo sperare di “sopravvivere”, perché “in Africa non cresce niente, non c’è pioggia, e i fiumi non scorrono”, una descrizione falsa e disumanizzante che riduce milioni di chilometri quadrati a un luogo di disperazione.
Do they know it's Christmas time at all?
Questa domanda retorica è il climax della canzone e anche il suo momento più offensivo. L’Etiopia è uno dei paesi con la più antica tradizione cristiana: dichiara il cristianesimo religione di stato nell’anno 3402, secondo paese nella storia a fare questa scelta (dopo l’Armenia), quarant’anni prima dell’Impero Romano3. Gli etiopi, quindi, sanno perfettamente quando è Natale. Piuttosto, siamo noi che probabilmente ignoriamo quando si celebra il Natale in Etiopia: il 29 Tahsas del calendario etiope (diverso da quello gregoriano, in virtù del Grande Scisma tra ortodossi e cattolici), che corrisponde al 7 gennaio e non al 25 dicembre.
Si può sicuramente sostenere che Do They Know It's Christmas? sia una canzone figlia del suo tempo, e che negli anni Ottanta ci fosse una sensibilità diversa rispetto a quella odierna. Sebbene all’epoca siano emerse inchieste importanti sulla gestione del fundraising, non si sollevarono critiche significative sul razzismo intrinseco del brano. Anzi, il progetto ispirò addirittura i musicisti afroamericani a creare la versione equivalente We Are the World, incentivati dalla motivazione di Harry Belafonte:
“Abbiamo i bianchi che salvano i neri. Non abbiamo i neri che salvano i neri.”4
Dopo il 1984, Do They Know It's Christmas? è stata riproposta in nuove edizioni: nel 1989, 2004 e 2014, con la partecipazione di personalità del calibro di Kylie Minogue, Jimmy Somerville, Lisa Stanfield, Dido, Robbie Williams, Paul Mc Cartney, David Bowie, Thom Yorke, Chris Martin, Sinéad O’Connor, Ed Sheeran.
Quest’anno, in occasione del quarantesimo anniversario della canzone, la BBC ha prodotto un musical e un documentario con filmati inediti di quell’esperienza. Inoltre, Band Aid ha rilasciato una nuova versione 2024, senza nuovi cantanti, facendo un mashup delle voci degli anni precedenti.
La prestigiosa giornalista musicale Maura Johnston ha definito l’esperimento “macabro”, sottolineando che il brano si conclude con un surreale appello di David Bowie che invita a “comprare il disco”. Ha inoltre osservato che alcuni artisti non più in vita, come ad esempio Sinéad O’Connor, probabilmente avrebbero avuto qualcosa da obiettare sul loro coinvolgimento.
Il rapper ghanese-inglese Fuse ODG, che aveva già rifiutato l’invito a partecipare all’edizione 2014, ha criticato duramente Bob Geldof per l’edizione 2024 con un post su Instagram, un’intervista a BBC Africa e un brano intitolato polemicamente We Know It’s Christmas.
“Band Aid e iniziative simili negli ultimi 40 anni sono costate al continente africano trilioni, ostacolando la crescita economica, gli investimenti, il turismo e distruggendo la nostra dignità collettiva.” - Fuse ODG
A seguito di questa denuncia, Ed Sheeran ha preso le distanze dall’operazione dichiarando:
“Non mi è stato chiesto il permesso per questa nuova versione di Band Aid 40, e se avessi avuto la possibilità di scegliere, avrei rispettosamente negato l'uso della mia voce. A distanza di dieci anni, la mia comprensione della narrativa associata a questa canzone è cambiata.”
In questi segnali si intravede un percorso di cambiamento, frutto di una mentalità più consapevole propria delle nuove generazioni. C’è la speranza che il brano possa essere finalmente percepito in tutte le sue problematiche, e che il dibattito relativo porti a riconsiderare le tendenze neocoloniali e i loro effetti. La giornalista Maura Johnston ha espresso l’auspicio che le radio smettano di trasmettere Do They Know It's Christmas?. E, chissà, magari il prossimo contest potrebbe proporre non tanto di evitare la classica Last Christmas degli Wham, quanto piuttosto una canzone che trasmette messaggi profondamente sbagliati.
Riferimenti:
How our understanding of the single Do They Know It's Christmas? has evolved - CBC Arts, 25/11/24
Ed Sheeran, Fuse ODG: do they know they’re dead right about Band Aid? Africa needs more than a singalong - Nels Abbey, The Guardian, 19/11/24
The Live Aid Musical: Built on Lies, Cynicism, and Self-Congratulatory BS of White Saviors - Jeff Pierce, 3/10/24
Live Aid: Spin's 1986 Investigation Into Relief Aid Abuse, 'Sympathy for the Devil' - Andrew Stone, SPIN, 17/7/2015
Live Aid: The Terrible Truth - SPIN Staff, 13/7/2015
Ethiopia famine aid 'spent on weapons' - Martin Plaut, BBC, 3/3/2010
Cruel to be kind? - David Rieff, The Guardian, 24/6/2005
“I’ll shake hands with the Devil on my left and on my right to get to the people we are meant to help.”
Holy War, Ian Campbell, p. 15
Documetario Netflix We are the World - la notte che ha cambiato il pop. La citazione originale è “We have white folks saving Black folks. We don’t have Black folks saving Black folks.”