Tra Etiopia e Palestina: confronti e limiti nelle lotte di liberazione
Riflessioni sul parallelismo tra resistenza etiope e palestinese e sui limiti della violenza anti occupazione di fronte ai recenti eventi in Medio Oriente.
Di recente ho disegnato una nuova versione della copertina. Il personaggio è frutto di un lavoro fatto con un ragazzo eritreo che si è prestato a interpretare il ruolo di Abraham facendosi fotografare in una serie di pose, tra cui quella in cui lancia una granata.
Questa collaborazione è stata molto proficua, ha permesso al fumetto di fare un ulteriore salto di qualità visuale. Lo racconterò in un prossimo post, il tema di oggi è un altro.
La copertina non è una scena astratta, illustra un momento preciso nella preparazione dell’attentato a Graziani. Un mese prima del fatidico Yekatit 12 (19 febbraio 1937), Simeon, Abraham e Mogos si recano nel deserto per addestrarsi a usare le granate sotto la guida del mitragliere di un leader arbegnuocc (Fikremariam Aba Techan).
Il simbolismo è un elemento che cerco di infondere nelle scene chiave del progetto e, come alcuni amici hanno notato, il gesto di Abraham è un chiaro rimando all’intifada.
Nella mia visione, l’immagine evoca il tentativo di sfidare un invasore apparentemente invincibile. A volte, le idee scaturiscano da semplici associazioni mentali.
Tuttavia, nelle ultime settimane, la sovrastante enormità degli avvenimenti in Medio Oriente ha innescato nella mia mente una serie di dubbi sul paragone tra la resistenza etiope e quella palestinese. È giusto da un punto di vista storico e politico? Israele è un progetto coloniale? Fino a che punto può arrivare la violenza in una lotta di liberazione? I protagonisti del mio fumetto sono terroristi? Ho cercato di approfondire e condivido alcuni elementi della mia ricerca.
Innanzitutto, la definizione di colonialismo nei confronti di Israele è profondamente controversa. Ci sono due elementi che rendono difficile etichettare Israele come un caso di colonialismo classico. Il primo è il modo con cui è nato lo stato di Israele, unico e distinto rispetto ai colonialismi tipici di fine ottocento. La seconda è che molti israeliani si trovano in Israele da sempre: a differenza degli italiani in Etiopia o dei francesi in Algeria, non hanno un luogo di origine in cui tornare.
Al tempo stesso, il caso di Israele viene definito da alcuni come settler colonialism, un’espressione traducibile in italiano come colonialismo di insediamento. Il concetto è stato teorizzato negli anni novanta da uno storico australiano, Patrick Wolfe, con la pubblicazione Settler colonialism and the elimination of the native.
I didn’t invent Settler Colonial Studies. Natives have been experts in the field for centuries.
- Patrick Wolfe
Il settler colonialism è una forma di dominazione molto specifica in cui i coloni creano società distinte dalla popolazione indigena, cercano di controllare la terra e le risorse, nonché eliminare o rimuovere con la forza gli abitanti nativi e sostituirli con i coloni. Il modello si riferisce, ad esempio, alle conquiste degli europei nei territori di America, Australia, Nuova Zelanda, Sudafrica, e si accompagna a pratiche di genocidio e/o apartheid. Non è un caso che Nelson Mandela sia sempre stato molto vicino all’autodeterminazione palestinese.
L’interpretazione di Israele sotto il prisma del settler colonialism è ampiamente esaminata dall’Associazione Boycott, Divestment and Sanctions (BDS), un movimento palestinese che si adopera per esercitare pressione su Israele affinché rispetti il diritto internazionale.
A differenza del termine colonialismo nella sua accezione più generale, l’uso delle parole occupazione e colonie è invece universalmente riconosciuto in riferimento agli insediamenti israeliani in Cisgiordania (West Bank). Queste comunità si sono formate su territorio palestinese in seguito alla guerra dei sei giorni del 1967, e la loro esistenza è considerata una violazione del diritto internazionale da parte dell’ONU. In una intervista sul podcast del Post “Globo”, Francesca Mannocchi fornisce un’analisi dettagliata degli abusi e delle violenze subite dai palestinesi nella regione e conclude che tali ingiustizie inducono le vittime a radicalizzarsi e a vedere in Hamas l’unica via di risposta.
Se da un lato è fondamentale capire il contesto in cui avviene l’attacco del 7 ottobre di Hamas, dall’altro bisogna ammettere che tra i sostenitori della causa palestinese c’è stata una tendenza a minimizzare o addirittura giustificare la violenza dell’operazione e l’uccisione dei civili israeliani. In un articolo su Internazionale Amira Hass espone questa discutibile gamma di posizioni, e sostiene la necessità di “tracciare (…) una linea di demarcazione tra attività lecite e proibite.”
Il classico concetto di sinistra secondo cui un movimento di liberazione nazionale o di classe non deve farsi trascinare in atti terroristici sembra essersi perso
- Amira Hass
In linea con questo principio c’è l’intervento di Ken Loach durante la Peace March for Palestine di ieri a Bath: citando il discorso del Segretario dell’ONU, il regista ha affermato come primo punto che dobbiamo tutti condannare la brutalità dell’uccisione di civili.
Su questo aspetto ho fatto una chiacchierata con Matteo Dominioni, uno degli storici contemporanei più rilevanti sul tema del colonialismo. La sintesi del pensiero di Dominioni (che condivido con il suo consenso) è che gli attacchi della resistenza contro un regime di occupazione devono sempre rivolgersi a obiettivi militari: soldati, ponti, caserme, e così via. È fondamentale fare distinzione tra terrorismo contro l’esercito di occupazione e terrorismo contro i civili: il primo è legittimo, come nel caso dell’attentato di via Rasella durante la Resistenza italiana, mentre il secondo non è mai giustificato. Dominioni mi ha confermato che la resistenza etiope non colpì mai i civili italiani, né con attentati né con rapimenti; portò avanti esclusivamente attacchi militari, come ad esempio quello dello Yekatit 12 contro il maresciallo Graziani di cui parlo nel mio racconto.
Due note veloci sul rapporto tra fumetti e questione israelo-palestinese.
La prima è che ho apprezzato la posizione di Zerocalcare su Lucca Comics, e ho trovato imbarazzanti gli attacchi scomposti che ha ricevuto. Internazionale ha appena pubblicato un fumetto online in cui il fumettista ricostruisce il suo percorso decisionale e il crescendo delirante di accuse.
La seconda è che nell’ultima newsletter di Cristina Portolano c’è un’ampia lista di fumetti correlati al conflitto tra i due popoli.
All’elenco di Cristina mi sento di aggiungere solamente Gaza 1956 di Joe Sacco, un libro enorme per importanza e dimensione (quasi 400 pagine) su due massacri di palestinesi praticamente sconosciuti che l’autore ha ricostruito con grande maestria investigativa. Il libro è uno dei miei riferimenti principali nello sviluppo di Yekatit 12. In copertina ha un importante strillo di Amira Hass:
Da sola, la parola scritta non basta a comunicare l’orrore.
- Amira Hass
Il fumetto ha il potere dell’immagine, aiuta a vivere le vicende storiche con un’intensità che la saggistica difficilmente riesce a trasmettere. È una delle motivazioni più forti che mi spingono a creare una versione a fumetti della vicenda etiope.
Infine, a proposito di fumetti e politica, ci ha lasciato da poco Sergio Staino, che ricordo come uno degli incontri più positivamente destabilizzanti del mio percorso artistico. Era il lontano 1993, la rivista di satira politica Cuore lanciò una selezione di trenta persone per un corso estivo di giornalismo disegnato nella Libera Università di Alcatraz di Jacopo Fo con autori come Angese, Michele Serra, e altri.
All’epoca pubblicavo vignette di satira su giornali della mia città, come La Gazzetta di Modena. Mi candidai e con mia grande gioia fui selezionato. Mi vedevo già avviato verso un cammino di successo al fianco di Gipi, Vauro, Ellekappa. Tuttavia, l'esperienza prese una svolta ben diversa già dal primo giorno, con il workshop condotto da Staino. Dopo un racconto toccante ed autoironico su come era nato il personaggio di Bobo, cominciò a valutare i nostri lavori. Quando arrivò il mio turno, Staino si chinò sui disegni avvicinandoli agli occhi (già allora ci vedeva pochissimo) e mi disse testualmente: “Questo è Altan, non sei tu. Butta via tutto. Devi trovare la tua voce.”
Fu così che passai il resto della settimana alienato, a guardare come uno spettatore i miei compagni che lavoravano alacremente, mentre io oscillavo senza meta tra il vuoto cosmico dei miei fogli bianchi e qualche tuffo in piscina. Grazie alla stroncatura di Staino, quando tornai a casa, accantonai la dimensione un po’ limitata ed estemporanea della vignetta e cominciai ad aprire i miei disegni al fumetto e alla narrazione. È anche grazie a quella lezione, che ha risuonato nella mia ricerca di una voce personale, se oggi sta nascendo Yekatit 12.
Bellissimo il racconto di questa tua ricerca artistica, e grazie per la citazione <3
Complimenti un racconto veramente interessante