I buoni e i cattivi
Tra miti di civiltà, rimozioni storiche e sogni di superpotenze: cosa rivela la retorica europeista della campagna lanciata da Michele Serra.
Venerdì 14 marzo, alla Casa del Mondo di Bologna, ho partecipato a una tavola rotonda organizzata da Kriolla Culture con Simona Brighetti (Biblioteca Cabral), Camilla D’Agostino (Circolo Granma) e Simone Gimona (Montagna di Suono). Abbiamo discusso del rapporto tra cultura e strutture di potere. È stata una serata stimolante, oltre che un’occasione per sostenere uno spazio sociale antirazzista che da tempo lotta contro una minaccia di sfratto.
Queen Ezinne Nnodi, che moderava l’incontro, ha presentato Yekatit 12 come un progetto di controcultura che può contribuire a scardinare la narrazione mainstream che celebra il “buon colonialismo” italiano e il mito degli “italiani brava gente”. Si è parlato di come la rimozione del colonialismo sia funzionale al potere e serva a preservare l’idea di superiorità della nostra civiltà.
Questa convinzione si è rafforzata negli ultimi tempi osservando come il dibattito liberale tenda a dividere il mondo in due fazioni contrapposte. Da un lato, i buoni: noi, l’Europa. Dall’altro, i cattivi: Putin, Hamas, Iran, Trump. Sia chiaro, non ho intenzione di difendere questi ultimi — mi fanno orrore le dittature (per inciso, i politologi classificano la Russia una democratura), i fanatismi religiosi, i populismi fascistoidi. Detto questo, l’idealizzazione dell’Europa e della democrazia liberale come baluardi contro la barbarie alle porte è un’idea distaccata dalla realtà, che impedisce di comprendere le dinamiche globali e riconoscere le contraddizioni interne. Contribuisce a fare danni.
Una rappresentazione emblematica di questa retorica distorta è la campagna Una piazza per l’Europa, lanciata da Michele Serra. Un vero e proprio appello a difendere il sistema dei “valori europei” come un monoblocco, apice dell’evoluzione umana, da opporre all’apocalisse imminente. Gli interventi del 15 marzo in Piazza del Popolo hanno espresso un mix di rimozione collettiva, pensiero magico, spirito bellico e suprematismo eurocentrico. Di seguito, analizzo alcuni passaggi particolarmente critici.
Antonio Scurati ad esempio ha detto:
“Noi non siamo gente che invade i Paesi confinanti, che bombarda e rade al suolo le città. Lo abbiamo fatto fino a ottantanni fa quando gli italiani, non tutti, erano fascisti e alleati con i nazisti. Ma proprio per questo abbiamo smesso di farlo una volta per tutte e per sempre.“
Questa affermazione non considera il colonialismo italiano precedente al fascismo, iniziato alla fine dell’Ottocento sotto governi liberali, connotato da razzismo, massacri, schiavismo. Ignora anche il coinvolgimento militare europeo nelle guerre più recenti: l'Italia ha partecipato direttamente ai bombardamenti su Belgrado nel 1999 che causarono molte vittime civili. I paesi europei hanno preso parte alle invasioni dell'Afghanistan e dell'Iraq, conflitti segnati da gravi crimini di guerra, e nel 2011 all'intervento militare in Libia, guidato dalla Francia, una classica operazione di regime change.
“Noi non massacriamo e torturiamo i civili con gusto sadico. Noi non sequestriamo i bambini e li deportiamo usandoli come riscatto.“
Eppure l’Europa sostiene attivamente le politiche criminali di Israele nei confronti dei palestinesi: il genocidio in corso a Gaza, il regime di apartheid, il colonialismo di insediamento in Cisgiordania, le esecuzioni extragiudiziali, la detenzione arbitraria e l'uso sistematico della tortura nelle carceri, anche nei confronti di minori. I governi europei non solo evitano di condannare queste pratiche, ma in molti casi reprimono chiunque tenti di criticarle. Basti pensare al trattamento riservato a Francesca Albanese, relatrice dell’ONU, durante la sua ultima visita in Germania.
“Noi non siamo gente che deporta gli immigrati e i clandestini a favore di telecamera.”
Di recente, il Governo Italiano ha deciso di deportare gruppi di migranti in Albania, nel famigerato centro di detenzione appositamente costruito a questo scopo. Inoltre, continua a finanziare e sostenere la Guardia Costiera Libica nota per trattamenti disumani: detenzioni arbitrarie, torture, stupri. Frontex, Agenzia Europea della Guardia di Frontiera e Costiera, è stata accusata più volte di partecipare a respingimenti illegali di migranti in mare e di essere complice di violenze al confine tra Bosnia e Croazia.
“Noi non siamo gente che taglia i finanziamenti pubblici alle associazioni umanitarie.”
Nel gennaio 2024, diversi Paesi europei, tra cui l'Italia, hanno sospeso i finanziamenti all'UNRWA, Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso dei profughi palestinesi. La decisione ha messo a rischio la sopravvivenza di circa due milioni di persone a Gaza, privandole di accesso a cibo, cure mediche e istruzione.
“Ripudiare la guerra non significa essere arresi, inerti, rinunciatari, non significa essere vigliacchi.”
Un concetto rilanciato anche da alcuni striscioni presenti in piazza — “La pace non è sottomissione” — e ripreso da Roberto Vecchioni nel suo intervento:
“Non esiste corrispondenza tra pace e pacifismo. Non si può accettare qualsiasi pace.”
In sostanza, si chiede agli ucraini di non arrendersi né accettare condizioni sfavorevoli, bensì di continuare a combattere mentre l’Europa fornisce solo le armi, non i soldati. È una posizione molto diffusa tra intellettuali e politici europei. Tuttavia, autorevoli analisti politico-militari come John Mearsheimer spiegano che la Russia ha ormai sostanzialmente vinto la guerra e che, più a lungo durerà il conflitto, più l’Ucraina perderà vite e territori. L’idea di proseguire i combattimenti come una scelta morale assoluta, senza considerare le conseguenze concrete sul terreno, è stata definita sarcasticamente da Mearsheimer come la “volontà di combattere fino all’ultimo ucraino”.
Dopodiché, Vecchioni ha introdotto il tema della superiorità culturale:
“Vi dico: Socrate, Spinoza, Cartesio, Hegel, Marx, Shakespeare, Cervantes, Manzoni, Leopardi. Ma gli altri le hanno queste cose?“
e ancora
“Noi teniamo alla nostra cultura. Poi, questa parola Cultura dovrebbe finire qui. A parte qualche intellettuale in America, dovrebbe essere nostra e basta. Certamente è nostra la cultura, loro non sanno cosa sia.“
Vecchioni è un artista che ho amato molto, e mi fa male vederlo scivolare in una deriva suprematista da metà Ottocento, la stessa che per secoli ha giustificato il colonialismo con la pretesa di diffondere l’illuminismo e "civilizzare" i popoli considerati inferiori. È quasi imbarazzante doverlo ribadire: la lista di pensatori e artisti delle altre civiltà è immensa, frutto di culture millenarie con una storia ricchissima. Inoltre, gran parte della produzione culturale in lingue orientali, arabe o africane non è nemmeno tradotta nelle lingue europee. Forse, invece di attribuirci il monopolio della cultura, sarebbe più saggio ammettere, socraticamente, che sappiamo di non sapere.
L’intervento di Corrado Augias ha portato il discorso su un piano più esplicito:
“Se un’Europa unita non riprende il suo cammino, il nostro destino futuro non sarà garantito, perché è in corso uno scontro globale per il possesso del mondo che richiede, accanto ai tre giganti che si stanno spartendo il pianeta, un quarto protagonista. Possiamo essere il quarto protagonista di questo scontro titanico in corso.”
Augias ha più volte sottolineato l’ingenuità del proprio afflato e di quello dei partecipanti all’iniziativa. Ma occore essere chiari: non c’è nulla di ingenuo nella visione che propone. Si tratta di una concezione ben precisa di realismo politico in base alla quale l’Europa dovrebbe trasformarsi in una superpotenza militare per competere con Stati Uniti, Russia e Cina per l’influenza e il dominio del pianeta. Una prospettiva che implica, nei prossimi decenni, lo spostamento massiccio di risorse verso il settore militare, sottraendole a sanità, istruzione, stato sociale e alla gestione della crisi climatica.
Un altro intervento piuttosto straniante è stato quello di Fabrizio Bentivoglio, che ha recitato il discorso di Pericle sulla democrazia ateniese con un'enfasi che mi ha ricordato la retorica esaltata del fumetto 300 di Frank Miller sulla battaglia delle Termopili. La frase epica in questo caso non era "Questa è Sparta!", ma:
“Qui, ad Atene, noi facciamo così!”
Il messaggio implicito era chiaro: ribadire che l’Europa è la culla della democrazia e della giustizia. Tuttavia, la lettura di Bentivoglio sembra incarnare perfettamente quello che Károly Kerényi definisce mito tecnicizzato: “favole, fantasie o invenzioni che si spacciano per verità, sebbene servano solo agli scopi della politica”. Se ci atteniamo alla realtà storica, infatti, il quadro è un po’ diverso. Tocqueville sostiene che la democrazia ateniese era composta da 20.000 cittadini e 350.000 schiavi ed era più simile a un'aristocrazia allargata. Max Weber è ancora più netto: “La democrazia antica è una gilda che si spartisce il bottino”. Non solo, includere la Grecia antica nell’Europa è una forzatura ideologica: la Grecia classica era molto più legata all’Asia e al nord Africa che ai territori europei.
Anche ammettendo che la democrazia nasca in Europa, con l’Illuminismo e la Rivoluzione Francese, bisogna riconoscere che l’Unione Europea ha peggiorato la qualità dei meccanismi di rappresentanza popolare. Il potere è concentrato nelle mani della Commissione Europea, un organismo assimilabile al Governo, mentre il Parlamento ha un ruolo subordinato e perlopiù notarile. Ricordiamoci che uno dei pilastri della nostra Costituzione antifascista è l’esatto opposto: il Parlamento deve essere sovraordinato al Governo, un’architettura istituzionale concepita per ribaltare la gerarchia fascista, che considerava il Parlamento un “bivacco di manipoli”. Non a caso, alcuni osservatori, hanno definito la UE come un modello di power without accountability, un sistema che consente alla politica di prendere decisioni anche di enorme portata (come una proxy war con la Russia) senza assumersi alcuna responsabilità di fronte ai cittadini: “Ce lo chiede l’Europa”.
E infine, arriviamo al macro concetto, enunciato da Corrado Formigli:
“Tutte le persone che sono qui sono unite da un’idea: tutti sognano gli Stati Uniti d’Europa.”
e dall’organizzatore della campagna, Michele Serra, che cita Garibaldi:
“Qui o si fa l'Europa o si muore.”
Capisco che dopo secoli di guerre fratricide, l’idea di riunire i popoli europei sotto un unico ombrello possa sembrare l’unica via per garantire una pace duratura. O che unire le forze tra più Paesi possa trasmettere un senso di maggiore sicurezza. Tuttavia, credo sia utile uscire dal campo delle suggestioni sentimentali e adottare un approccio più lucido e razionale.
Innanzittuto, fondere ventisette nazioni che parlano lingue diverse in una Super-Nazione è qualcosa che non ha precedenti storici, e che molti intellettuali autorevoli considerano una fantasia irrealizzabile.
Ci sono poi altri aspetti da considerare. Lo Stato dovrebbe essere uno strumento al servizio del benessere collettivo, non un fine in sé. E se crediamo nelle conquiste sociali, nella giustizia economica e nei diritti civili, come proclamato dai protagonisti della manifestazione, allora bisogna chiedersi: gli Stati Uniti d’Europa rappresentano davvero il modo migliore per raggiungere questi obiettivi?
Io ho qualche dubbio. Guardando al processo di integrazione portato avanti finora, i risultati non sono affatto incoraggianti. In particolare, l’adozione delle politiche economiche europee di stampo liberista, con i parametri di Maastricht e le misure di austerità, ha prodotto effetti devastanti: compressione dei redditi, aumento delle disuguaglianze, tagli drastici allo stato sociale. Queste dinamiche hanno alimentato, ovunque in Europa, la crescita delle destre più estreme e reazionarie.
E poi, quali sono gli esempi che dimostrano che uno Stato gigantesco renda la vita dei suoi cittadini più prospera, sicura e moderna? Il caso dei nostri cugini d’oltreoceano, gli Stati Uniti d’America, appare tutt’altro che virtuoso: una democrazia condizionata dalle lobby (a partire da quella israeliana), segnata da disuguaglianze abissali, welfare quasi inesistente, tensioni sociali drammatiche, alti tassi di criminalità e una delle popolazioni carcerarie più numerose al mondo. Anche nelle altre super potenze, Russia, Cina, India, la situazione interna è ben lontana dall’essere idilliaca. Al contrario, i modelli più efficaci in termini di progresso sociale e qualità di vita si trovano in Stati di dimensioni contenute, come le socialdemocrazie del Nord Europa, più facili da amministrare, con un rapporto più stretto tra cittadini e istituzioni.
Infine, c’è un problema ancora più ampio che riguarda le nostre libertà fondamentali: chi ci garantisce che, una volta istituiti i magnifici Stati Uniti d’Europa non salga al potere un Trump nostrano (gli esemplari non ci mancano) e imponga, per esempio, il divieto di aborto in tutti i ventisette Stati membri? L’esistenza di più Stati garantisce una diversificazione del rischio politico: un eventuale governo repressivo in un Paese può essere bilanciato da modelli più progressisti altrove. In un sistema centralizzato, questa pluralità sarebbe perduta.
Come ha scritto Mario Ricciardi in un articolo sul Manifesto:
Anche all’interno dei corpi intermedi o delle associazioni informali possono affermarsi tendenze dispotiche, e forme di sopraffazione, ma finché la varietà dei modi di stare insieme degli esseri umani rimane ampia, è più difficile che un potere centralizzato abbia il sopravvento soffocando del tutto la diversità.
Gli intellettuali che sostengono gli Stati Uniti d’Europa sembrano accantonare il pensiero critico e scommettere tutto sull’esaltazione di una bandiera, confidando ciecamente nelle capacità delle classi dirigenti europee di guidarci verso un futuro radioso. Del resto, abbiamo stabilito che siamo la civiltà superiore, no?
Il problema sta proprio qui: attribuire qualità intrinseche eccezionali a una Nazione (o Super-Nazione), così come a un popolo, significa adottare un principio di matrice nazionalista. Il fatto che questo indirizzo sia rivestito di un’aura progressista lo rende semplicemente più difficile da riconoscere. Forse proprio per questo ancora più pericoloso.